sabato 13 giugno 2015

Transgender, transrazziale e transetnico


Dopo il caso Caitlyn Jenner, negli USA è scoppiato il caso Rachel Dolezal, la responsabile della sezione di Seattle, WA, della NAACP, che per diverso tempo si è dichiarata "nera", finché i suoi genitori non l'hanno invece pubblicamente dichiarata "bianca".

Come potete constatare nel sito della NAACP, tra gli stessi fondatori dell'organizzazione c'erano dei bianchi, quindi il problema non è la presunta "razza" di Rachel Dolezal, quanto il modo in cui si è identificata con la "razza nera" e lo ha pubblicamente dichiarato (anche falsificando dei documenti e simulando minacce mai pervenute, secondo [2], e questi sono dei reati).

Molte persone di colore si sono risentite (tant'è vero che Lunedì 15 Giugno 2015 Rachel Donezal si è dimessa da responsabile della sezione di Seattle della NAACP), con diverse motivazioni.

La prima è l'appello a non paragonare le persone transgender con le persone transrazziali: il termine transrazziali indica in sociologia le persone che hanno varcato le barriere della "razza" loro malgrado, in quanto persone di colore (non solo afroamericane - spesso anche asiatiche) adottate da famiglie bianche.

Non sono quindi persone che hanno valicato volontariamente la barriera razziale, e le dinamiche tra genitori adottivi bianchi ed adottati di colore hanno spesso portato loro grande sofferenza.

In molti casi, i genitori adottivi bianchi hanno esibito la loro scelta di adottare persone di colore come uno "status symbol", la prova della loro grande generosità, ma non era loro possibile inserire i loro figli nella cultura da cui provenivano, e spesso non la stimavano nemmeno - delle persone transrazziali ricordano che i loro genitori adottivi li rimbrottavano dicendo: "Ringrazia noi, ché alrimenti avresti mendicato, fatto del lavoro minorile, o la prostituta bambina!"

Per giunta, la società americana non concepisce la possibilità di "cambiare razza", e questo ha fatto di loro degli sradicati; quest'impossibilità di "cambiare razza" è la seconda motivazione per non paragonare le persone transgender con quelle transrazziali.

Quest'impossibilità è stata motivata in diversi modi; chi ha fatto ricorso ad argomenti biologici, chi ha, come Shiri Eisner, più intelligentemente osservato che in America il bianco che passa da persona di colore non perde i privilegi del bianco, mentre la persona di colore che passa da bianco viene duramente punita se scoperta - la miglior prova che la società americana non concepisce la possibilità di cambiare "razza".

Un paragone alquanto ingeneroso, ma non del tutto insensato, è con la legislazione razziale nazista: è difficile pensare che durante il nazismo un gentile volesse convertirsi all'ebraismo, ma per i nazisti questa "Willenserklärung = Declaratio Voluntatis" sarebbe stata irrilevante, in quanto non gli avrebbe fatto perdere la sua "arianità", stabilita esclusivamente con criterio genealogico.

Invece la donna transgender (anche in Italia, è stato riscontrato) perde i privilegi dell'uomo, e l'uomo transgender li acquisisce in parte; un argomento interessante sull'impossibilità di varcare sia le barriere "razziali" che quelle etniche e di genere l'ho trovato in [1] - purtroppo, non mi convince.

Il problema mi riguarda in quanto lesbica transgender da una parte, ebrea per conversione/adozione dall'altra; posso essere una trans ed una convertita solo se ritengo possibile valicare le barriere di genere ed etnia, ma le argomentazioni in [1] sono a favore della loro invalicabilità.

La tradizione ebraica è piuttosto variegata, a seconda dei tempi, dei luoghi, e delle denominazioni, ma il punto comune è che un gentile (di ogni genere) ebreo lo può diventare - perciò le argomentazioni di [1] in ambito ebraico non verrebbero accolte.

Da un punto di vista antropologico-culturale, ritengo opportuno osservare che ogni cultura deve essere trasmessa da una generazione all'altra, e che una persona viene dichiarata adulta quando ne ha assimilato abbastanza da trasmetterla alla generazione successiva - che contribuisce ella stessa magari a generare fisicamente.

La costruzione di una cultura può richiedere secoli, ma la sua trasmissione da una generazione all'altra non può richiedere più di due decenni; quindi, se è possibile fare dei nati della propria etnia degli adulti, che cosa impedisce di integrare degli estranei in essa? La tradizione ebraica sull'etnia è molto più intelligente della concezione americana della "razza".

Allo stesso modo si può argomentare per il genere: molte femministe "trans-esclusive" fanno di tutto per impedire che le donne trans vengano considerate donne tout-court, argomentando in modi alle volte anche volgari (per esempio, Germaine Greer ha detto che una donna trans non avrà mai la profumata vulva di una donna cis); quando non vogliono essere volgarmente biologistiche, affermano che la "socializzazione" che subiscono le donne fin dalla nascita è diversa da quella che subiscono gli uomini, e questo renderebbe a loro giudizio irriducibile l'esperienza di una donna trans a quella di una donna cis.

Invece tutto si può imparare, e quindi una donna trans che sviluppi un'identità di genere femminile può interpretare in modo convincente (per quanto non viene limitata dal suo corpo di origine maschile) un ruolo ad essa conforme.

Il caso di David Reimer non è pertinente: questi era stato trasformato in femmina a suo dispetto - e questo fa la differenza rispetto alle persone trans che vogliono spontaneamente cambiare genere.

Raffaele Yona Ladu



P. S.: Il 17 Giugno 2015 Rachel Dolezal, come dice ad esempio [3], ha fatto il coming out da bisessuale. Alcuni attivisti bi si sono arrabbiati ed hanno dichiarato: "Non è vero!", io penso che, se ci ispiriamo a David Ben Gurion e diciamo che "chiunque sia abbastanza meshugge = pazzo da dichiararsi bisessuale è bisessuale", non possiamo che crederle sulla parola, tantopiù che il suo coming-out equivale ad affermare che nemmeno nel campo del desiderio ci sono barriere invalicabili, e concorda perciò con il suo poco apprezzato tentativo di varcare le barriere della razza.

giovedì 11 giugno 2015

SSOGIEs




Nel quadro di [0], ho incontrato Surat-Shaan Rathgeber Knan, che lavora per [1], che ha consigliato di sostituire, in alcune situazioni (preciso io), la sigla LGBTQIA+ (Lesbiche, Gay, Bi, Trans, Queer, Intersessuali, Asessuali, ecc.) con "SSOGIEs = Sexes, Sexual Orientations, Gender Identities and Expression = Sessi, Orientamenti Sessuali, Identità ed Espressioni di Genere", per non continuare ad allungare la sigla LGBT*, a rischio oltretutto di dimenticare qualche gruppo, tra cui gli eterosessuali, alle volte anche loro vittime di oppressione (per esempio, quando le attiviste nubili per la democrazia in Egitto sono state sottoposte a visita ginecologica, perché i militari volevano il pretesto per accusarle di prostituzione - perché la legge egiziana vieta i rapporti sessuali prima e fuori del matrimonio).

L'idea è venuta all'organizzazione [2], dopo due settimane di dibattito. Mi pare utile adottarla, sempre in situazioni particolari, magari usando per il momento la doppia sigla LGBT*/SSOGIEs, per chi non conosce la nuova.

Le situazioni particolari in cui è meglio parlare di SSOGIEs sono quelle in cui si riuniscono tutte le vittime di oppressione per motivi sessuali, ed esse lottano insieme per la libertà sessuale - in quel caso l'inclusività vale assai più dell'identità.

Ma le "vittime" non sono tutte uguali e non sono solo oggetti passivi - ogni lettera della sigla LGBTQIA+ indica un diverso modo in cui si è oppressi, ed un diverso modo di reagire all'oppressione creando un'identità sociale distinta.

L'agglutinare tali sigle ha il significato politico di riconoscere che diversi gruppi minoritari si riconoscono a vicenda come esistenti (lesbiche e bisessuali, per esempio, si lamentano spesso della loro invisibilità) e dotati di interessi comuni da perseguire insieme.

Rinunciare alla sigla LGBTQIA+ significa disperdere tutto questo, e sarebbe un vero peccato.

Occorre quindi stabilire ogni volta quando usare la sigla SSOGIEs e quando LGBTQIA+ - contro le "Sentinelle in Piedi" la sigla SSOGIEs mi pare estremamente opportuna, perché il loro attacco non è solo contro gli omosessuali ed i trans, ma contro chiunque loro considerino sessualmente deviante, comprese le donne etero cis a cui i ruoli di genere catto-reazionari proprio non piacciono!

Raffaele Yona Ladu

giovedì 4 giugno 2015

Bruce o Caitlyn?




Caitlyn Jenner
La foto di Caitlyn Jenner (già nota come Bruce Jenner) scattata da Anne Leibovitz e pubblicata in [1] ha scatenato una ridda di commenti anche in ambito ebraico, tra cui è interessante quello in [2].

Lì il giornalista Sigal Samuel racconta di come rav Eliyahu Fink ha commentato la vicenda citando il Mishneh Torah di Maimonide, il quale diceva che ci sono dei peccati che non sono gravi, ma l'indulgervi priva l'ebreo della sua parte di Paradiso.

E questi peccati sono:
  1. Escogitare per il proprio amico un nomignolo che lui trova offensivo;
  2. Chiamare il proprio amico con un nome che lui trova offensivo;
  3. Mettere pubblicamente in imbarazzo il proprio amico.

Non tutti gli ebrei concordano con Fink - molti hanno obiettato, ad esempio, che queste norme hanno valore giuridico solo nei confronti degli altri ebrei, quindi una non ebrea come Caitlyn Jenner, secondo il diritto ebraico, è alla mercé della benevolenza del parlante.

Fink ha voluto ribattere che, anche se nel caso di Caitlyn Jenner la norma ha solo valore etico e non giuridico, cionondimeno esprime un principio importante, quello del rispetto, che vale anche quando la legge ad esso non ha voluto conformarsi.

Potrei aggiungere che la legge ebraica indica il minimo, non il massimo etico, e che ognuno deve aspirare al meglio.

Raffaele Yona Ladu

mercoledì 3 giugno 2015

Bagni e spogliatoi

Una delle prime cose che ci si chiede quando si ha a che fare con le persone transgender è: “In quale bagno pubblico le mandiamo?”

Prima di rispondere, conviene rendersi conto che la risposta non è così semplice nemmeno per le persone cis.

Prendiamo ad esempio quello che accadeva nel Marocco dell’infanzia e dell’adolescenza della scrittrice Fatima Mernissi.

A Fez, la sua città, c’era ovviamente (ed immagino che ci sia ancora) l’hammam, il bagno turco, diviso tra uomini e donne.

Ma la scrittrice ci avverte che i bambini entravano nella sezione femminile, nudi in mezzo alle donne nude di tutte le età.

Quand’è che si decideva che era ormai il caso di mandarli in mezzo agli uomini adulti?

Quando alla curiosità infantile si era ormai sostituito il desiderio adulto.

Fatima Mernissi ricorda che un giorno una frequentatrice del bagno turco si lamentò che suo fratello [quello della scrittrice] era stato portato in mezzo alle donne, sebbene egli non fosse più un ragazzo.

Egli infatti, affermava quella donna, stava guardandole il seno proprio come glielo guardava suo marito.

Il ragazzo ribatté con una battuta irriverente che fece ridere tutte quante, ma da quel momento in poi non entrò più nella sezione femminile.

In Italia, invece, che accade?

Non ho mai frequentato una sauna o bagno turco; so quello che accade nelle piscine pubbliche, che un tempo frequentavo assiduamente.

Lo spogliatoio femminile è assolutamente tabù per gli esseri pene-positivi; quello maschile è aperto agli esseri vulva-positivi, purché validamente giustificati.

La tipica giustificazione è quella della mamma o della nonna che accompagna il figlioletto od il nipotino nello spogliatoio maschile.

Altra giustificazione è quella del babbo che porta la figlioletta in piscina, e sa che non la passerebbe liscia se entrasse con lei nello spogliatoio femminile.

Non mi è mai capitato di vedere addetti alle pulizie maschi nelle piscine che frequentavo, e le addette femmine entravano anche negli spogliatoi maschili, durante l’orario di apertura, sapendo che potevano anche incontrare un uomo che si faceva la doccia nudo – cosa vietata, ma non infrequente.

Il confronto è molto istruttivo: nel Marocco della Mernissi, la segregazione è per generi; nelle piscine italiane che ho frequentato, è per sessi.

In Marocco, finché non si chiede al ragazzo di comportarsi come un uomo adulto, lo si fa entrare tra le donne dell’hammam; è solo quando il ragazzo mostra una caratteristica adulta (il desiderio) anziché infantile (la curiosità), che ci si rende conto che lui deve ora stare fra gli uomini per essere educato da loro.

E, che io sappia, la shari’a prevede che il bimbo venga educato dalla mamma fino a sette anni; poi viene circonciso ed affidato al babbo.

In Italia il problema è la “fallofobia”: più che di spogliatoi maschili e femminili, si dovrebbe parlare di spogliatoi pene-positivi e pene-negativi. Il corpo maschile viene considerato pericoloso e va contenuto in appositi spazi, in cui talvolta può far capolino anche il corpo femminile.

Poiché la segregazione tra uomini e donne viene praticata in modo diverso a seconda dei luoghi e dei tempi, direi che risponde ad esigenze culturali, e può tranquillamente adeguarsi al mutare delle situazioni.

La segregazione tra i sessi è particolarmente umiliante per le persone transgender, in quanto viene loro bruscamente rammentato che la loro identità di genere non ha alcuna importanza, e vengono costretti a classificarsi in base ad una caratteristica che non hanno scelto ed attualmente è molto difficile mutare.

Nei paesi più evoluti si usano cabine chiuse, cosicché la segregazione diventa superflua, e si appendono cartelli come questo:

Raffaele Yona Ladu